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La storia: quando il calcio è integrazione

24.11.2014 12:45

Da Roma, città scossa dopo alcuni episodi recentissimi di tensione razziale, arriva per bocca di Gianfranco Multineddu, nella sua rubrica per Ps24 "Parola di Gianfranco", una storia datata ma che insegna come il calcio possa e debba essere uno strumento di integrazione. Buona lettura! Questa settimana vorrei affrontare un argomento che mi è particolarmente caro ed è molto attuale rispetto a tutto quello che sta accadendo in molte città Italiane, e voglio  raccontare un po’ quello che ha caratterizzato la mia vocazione da Direttore Sportivo Professionista . Quando divenni  Direttore Sportivo  del Tanas Primavalle era il 1991 ed eravamo in Eccellenza Regionale Laziale. Un pomeriggio, mentre mi trovavo nella sede, situata presso lo stesso impianto sportivo , bussò alla porta del mio ufficio un assistente sociale, inviato dal Comune di Roma, con 3 ragazzini al seguito che sembravano usciti fuori da un Film di Pier Paolo Pasolini. Mi chiese di poter iscrivere alla scuola calcio i suoi assisti, tre bambini di origine ROM ovvero “zingari”. I bambini, che provenivano dal Campo Nomadi Attrezzato di Monte Mario, erano entrati a far parte di un Progetto Pilota delle Politiche Sociali del Comune di Roma, che prevedeva il loro inserimento nella scuola e nelle attività sportive del quartiere. Allora chiesi all’operatore sociale come mai la scelta fosse ricaduta sulla mia società, visto che il loro Campo attrezzato confinava con la U.S. Monte Mario, facilmente raggiungibile, ma lui mi rispose che l’intolleranza dei gestori di quella società di calcio verso i Rom era talmente forte da portarli a rifiutare la loro richiesta senza un attimo di esitazione. Intanto, mentre io e l’assistente sociale parlavamo e cercavamo di trovare un intesa poiché anche io avevo delle remore e dei pregiudizi , i 3 “zingarelli” trovandosi per la prima volta in un centro sportivo attrezzato sembravano rapiti dal nostro campo in erba  sintetica forse uno dei  primi  nella città di Roma , e  appariva ai loro occhi come il parco giochi di Disneland , così, cogliendo un forte desiderio nei loro sguardi , mi feci convincere da quei capelli arruffati e da quelle guance annerite dal fumo dei pneumatici bruciati. Il giorno dopo iniziò il corso per i 3 nuovi iscritti: Ballantine Halilovic : 11 anni , il nome coniato dopo la ciucca con una bottiglia della nota casa di Whisky presa dal padre mentre il bambino veniva al mondo. Michael J Halilovic : 10 anni di guance affumicate , il suo nome in omaggio al grande artista Pop Americano.   Barretta Halilovic : 9 anni lui portava il nome di un personaggio dei Telefilm. Quanti problemi ebbi all’inizio con loro visto che, nella loro cultura, le regole le dà solo il padre di famiglia e nessun altro. La doccia dopo gli allenamenti era un optional, senza parlare poi degli indumenti puliti, dell’equipaggiamento sportivo e, non da ultimo, del timore dei genitori cosiddetti  “normali”, di eventuali contagi o infezioni che potevano causare ai propri figli. La prima cosa che gli insegnai fu quella di usare il termine Mister anzichè quello di  maestro così come avevano iniziato a fare,  mentre il sottoscritto veniva chiamato affettuosamente “Capo”, forse in osservanza del loro modo di vivere “in tribù”. La seconda cosa che feci fu quella di portare i 3 ragazzi a cena a casa mia con mio figlio Manuel che a quell’età non sentiva il problema di razza e provenienza era soltanto un loro coetaneo , Manuel  oggi ha 28 anni. Non fu cosa facile convincere i Genitori Halina e Michele Halilovic, che vivevano di espedienti. La cosa che più mi stupì quella sera fu la  compostezza a tavola dei 3 piccoli  “pellerossa” era come se prima di entrare in casa mia qualcuno gli avesse fatto una lezione di Galateo. Qualche tempo dopo, nello spogliatoio sparì un orologio con un cinturino della Roma ad un bambino cosiddetto ” normale” e lì non vi dico le accuse ai tre bimbi che oramai  erano diventati i più ordinati, puliti ed obbedienti del gruppo. Un papà mi accusò di aver rovinato la tranquillità di quella scuola calcio e della società stessa (da quale pulpito! Il mio quartiere PRIMAVALLE, secondo una indagine del Messaggero, conta 350.000 abitanti dei quali 300.000 risultano essere pregiudicati! ). I tre piccoli Rom si sentivano giudicati e promisero di non tornare più alla scuola calcio per le offese ricevute. Io li convinsi con molta fatica a continuare la loro esperienza, mentre loro insistevano dicendomi: “ Capo, noi non abbiamo rubato nulla qui dentro, perchè ci trattano così ?”. Ma la soddisfazione arrivò quando, un giorno, il derubato venne da me e disse di aver ritrovato l’orologio a casa, in un cassetto dove il figlio lo aveva riposto sbadatamente. Allora chiesi a quel genitore “normale” di chiedere scusa ai tre “incivili” dinanzi a tutti; quella fu una grande lezione di vita in quanto i tre bambini, in quella occasione, si sentirono finalmente integrati. Uno dei momenti più belli fu il bacio sulla guancia di questi tre “incivili” in occasione della chiusura annuale della scuola calcio. Accompagnati da entrambi i genitori (cosa rara) alla consegna del diploma annuale, i tre mi saltarono addosso baciandomi sulle guance; il papà, quasi con invidia, mi disse: ”Capo, io non ho mai ricevuto un bacio dai miei figli, grazie perché da oggi forse baceranno anche me”. Questa fu la dimostrazione che con il sacrificio, la passione, l’onestà e la determinazione si può portare ordine e disciplina anche in situazioni difficili..

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