Il Profeta si racconta - Galeone: "Io, Pescara e il Delfino"
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Da sempre il più amato e vincente nella storia del calcio pescarese. Chi? Ma Giovanni Galeone, of course. “Il Messia" o ”Il Profeta", se preferite. Di lui e dei suoi racconti non ci si stanca mai.
Qualche settimana fa, Il Centro ha pubblicato una bella intervista al Profeta del calcio biancazzurro a firma Simona De Leonardis che ora vi riproponiamo in versione integrale. Tanti gli aneddoti raccontati dal Gale al quotidiano abruzzese…. Buona lettura!
È bastata una foto scattata da lontano. Lui in tuta, appoggiato a un pattìno, che ruba qualche raggio di sole sulla spiaggia, per far ripartire il tam tam mediatico di una città ancora in adorazione: “Galeone è tornato”. E infatti, “il profeta” del miracolo biancazzurro in serie A, da una ventina di giorni è nella sua casa di Francavilla con la moglie Annamaria. E di fronte a tanto affetto quasi non si capacita: «Non capisco come mi riconoscano ancora, mi riempiono di affetto, e questo a distanza di tanti anni dall’ultima volta che ho allenato il Pescara. Così mi è successo in questi giorni anche a Silvi, a Sulmona: è incredibile». Un amore più che ricambiato dall’allenatore che non ha mai interrotto con la città il legame iniziato nel 1986, l’anno in cui mise per la prima volta piede a Pescara, raccattando una squadra di ragazzini destinata a fare il campionato di serie C, e poi ripescata a sorpresa per disputare la serie B. Per poi vincerlo, quel campionato, trascinando una città e un’intera regione in serie A. L’inizio di un sogno costellato di campioni e successi.
Mister, ma che cosa la portò, quando fu ingaggiato per 60 milioni di lire per la serie C, a chiedere subito il premio promozione?
«Niente, è il mio modo di approcciarmi alle sfide. Mai nella vita mettere un premio per la salvezza, non è serio prendere i soldi per salvarsi. Lo dissi anche al presidente dell’Udinese quando, dopo la promozione in serie A, mi propose un premio salvezza: gli dissi no, se vogliamo mettere un premio per la Champions ok, ma non gioco per la salvezza. Tre mesi dopo andai a Perugia e fummo promossi, nel 95-’96».
Pescara la conosceva prima?
«L’avevo vista di passaggio, quando con la mia famiglia tornavamo a Napoli a trovare i nonni. Da Trieste scendevamo a Pescara, poi Roccaraso, Isernia, quello era il percorso».
Che macchina avevate?
«Una 1100».
Per quei tempi un macchinone. Che faceva suo padre?
«Papà Corrado era ingegnere della Ilva, originario di Pescina dei Marsi, abruzzese. Ma la sua famiglia si era trasferita tutta a Napoli».
E sua madre? Ci parli dei suoi genitori.
«Mamma Dorina era di Reggio Emilia. Ma erano tanti figli, e mamma andò a vivere a Napoli con la zia (la sorella della madre), lo zio era un ingegnere molto importante, costruiva aerei, uno super. E mia mamma ha vissuto solo salotti e pianoforti, nella Napoli bene. Lei e mio padre si sono conosciuti perché abitavano nello stesso palazzo a Bagnoli. E hanno avuto quattro figli, tre maschi e una femmina. Io sono il secondo, l’unico rimasto».
Per questo è nato a Napoli.
«Sì, sono nato in quel palazzo dell’Ilva, a Bagnoli, il 25 gennaio del 1941 sotto i bombardamenti, come si nota bene dai miei comportamenti».
Perché si chiama Giovanni?
«Come mio nonno materno».
Qual è il primo ricordo dell’infanzia a Napoli?
«Siamo andati via da Napoli nel 1947 quando papà, sempre per l’Ilva, fu trasferito a Trieste. Avevo iniziato a fare le elementari. L’unica cosa che ricordo benissimo è che andavo al cinema, al Cabiria. Ci andavo anche quando tornavamo negli anni Cinquanta a trovare i nonni, era ancora il periodo in cui alla nonna si dava del voi e si baciava la mano. E mi ricordo benissimo che per entrare al cinema mi bastava dire che ero il nipote di Galeone, uno zio che non ho mai capito che c’entrasse con il cinema. In quel periodo si andava a vedere i film sugli indiani. Ma al Cabiria facevano anche film impegnati, e io andavo anche senza capire niente. E alla fine, quando uscivo, ero sempre incantato. Lì ho scoperto tutti i film di De Sica. “Miracolo a Milano” è uno di quelli che più mi hanno colpito. È in quel periodo che sono diventato un amante del cinema».
E come andò il passaggio da Napoli a Trieste?
«Bene, c’era il mare. Noi, poi, non andammo proprio a Trieste città, ma in una zona periferica, a Servola, dov’era l’Ilva, ed era ancora bilingue, italiano e slavo. I miei amici erano sloveni, croati, tra loro parlavano slavo, ma i loro nomi durante il fascismo erano stati italianizzati. Per esempio, Ivancic erano i Giovannini. Tutti grandi giocatori di calcio. Noi ci eravamo fatti il campo, all’Ilva c’erano tutti prati. Giocavamo con l’unico pallone che avevamo, lo portava Giovannini che aveva il fratello più grande che giocava nel Bologna. Ma tra noi c’erano anche Giorgio Ferrini, che poi divenne capitano del Torino, Cesare Maldini. A Servola non giocavamo con quelli di città, di Trieste. Eravamo troppo più forti, a calcio, ma anche a basket. Poi, al campo vicino a San Saba, dov’era lo stadio, iniziarono ad arrivare i profughi, sloveni e croati che scappavano. E i ragazzi venivano a giocare da noi. Erano tosti, giocavano bene. Lì ho cominciato a innamorarmi degli slavi».
La prima squadra?
«A dieci anni, nel Ponziana, come mediano».
Il suo mito da ragazzo?
«Mi piaceva Sivori, ero maniaco dei suoi tunnel, li facevo di continuo. Anche dopo, perfino nelle partitelle a Pescara, a 45 anni, facevo i tunnel a Loseto. Poi più avanti il mito è stato Suarez, che ho conosciuto bene in Sardegna, dove avevamo le case vicino. Invece come allenatore non ho dubbi, Liedholm tutta la vita».
Torniamo a Galeone ragazzo. Che scuola ha fatto, e come andava?
«Ho fatto il Classico, la scuola non è mai stato un problema, si conciliava bene con il calcio, non ci vuole niente».
Materia preferita?
«Il latino, mi piace ancora».
Ma è vero che ha giocato anche con Pier Paolo Pasolini?
«Sì, alla fine della carriera da giocatore nell’Udinese, negli anni Settanta, abbiamo giocato diverse partite insieme a Grado, dove i giocatori andavano a fare le sabbiature e lui lì stava girando “Medea” con la Callas, nella zona lagunare, anche con Raf Vallone e Ninetto Davoli. E si organizzavano delle partite».
Che ricordo ha di Pasolini?
«A calcio non era male. Come persona, un genio. Non alzava mai la voce, tranquillo, sereno, aveva un carisma naturale. Mi ricordo una volta, nello spogliatoio, era il periodo che con Vallone stava preparando “Uno sguardo dal ponte” e Vallone gli chiedeva dei consigli: mentre Pasolini parlava con il suo tono calmo, lui lo guardava in adorazione».
E poi ha giocato anche con Albertosi e Corso, da capitano della nazionale juniores: come ci arrivò?
«All’epoca giocavo nel Ponziana, la squadra di Giorgio Ferrini, che aveva fatto il campionato sloveno ai tempi della guerra. Era la squadra rivale della Triestina, quella più popolare. Quando giocavo io, era in quarta serie, e quando ci scelsero per la Nazionale io e Mario Corso eravamo gli unici a non giocare in squadre professioniste. C’erano anche Albertosi, Salvadore. L’anno dopo arrivarono Facchetti, Rosato. Poi hanno tutti giocato in nazionale».
E lei? Non ha qualche rimpianto, da calciatore?
«Iniziai la carriera da giocatore con il Monza, nel 1958. Conobbi Galliani che allora era tifoso del Monza. I primi soldi li ho guadagnati lì. Ma la verità è che non ho mai avuto problemi di soldi, ho avuto una fanciullezza da privilegiato, anche se stavo in strada con gli altri, e così anche da calciatore: sono andato via di casa a 16-17 anni e non era facile. Ma mi sono sempre domandato se il fatto di avere comunque un tetto sicuro dove tornare non mi abbia tolto quella fame necessaria per fare strada».
Ha iniziato da calciatore a Monza. Quando ha smesso?
«A Udine. Nel campionato ’72-’73 mi dissi che se non avessimo vinto il campionato avrei smesso. Perdemmo lo spareggio con il Parma per la serie B e io smisi».
Ma è vero che la chiamavano Netzer, giocatore tedesco fortissimo degli anni ’70?
«Nei sette anni che ho giocato a Udine mi chiamavano proprio così, avevo i capelli lunghi come lui, stesso ruolo. Di testa ero molto bravo, tiravo i rigori».
A Udine ha conosciuto sua moglie?
«Sì, nel 1965, il primo anno nell’Udinese. Lei, insegnante, si era appena laureata. La conobbi a casa di un’amica comune, poi l’ho rivista, ci siamo trovati, ma ci siamo sposati molto più tardi, nel 1979».
Quando ha iniziato ad allenare?
«Subito. I dirigenti dell’Udinese, quando ho smesso, mi diedero subito la possibilità di allenare il settore giovanile. In serie A, non sono andato da giocatore, ma da allenatore sì, grazie ai ragazzi che ho allenato: Pescara, Perugia, Udinese, anche se per la verità, subito dopo la promozione, da Udine me ne andai».
L’arrivo a Pescara, quale fu la prima impressione?
«Il mare. Il mare che avevo lasciato a Napoli, a Trieste e che avevo trovato anche a Genova, dove mio padre fu di nuovo trasferito e dove sono stato anche io per un periodo. Vivevamo sul mare, attaccati a corso Italia, un posto bellissimo, era il periodo di De Andrè».
L’ha conosciuto?
«Sì veniva al lido, a Boccadasse dove si andava la sera, ma era agli inizi, un ragazzo sempre con la sigaretta in bocca, era la seconda metà degli anni Sessanta, non era ancora conosciuto. Un periodo turbolento per l’Italia, il Sessantotto, le Brigate Rosse».
E lei da che parte stava?
«Non ero con le Brigate Rosse certo, ma avevo amici e conoscenti, soprattutto ragazze bene che andavano a manifestare in piazza, nel periodo del femminismo. In piazza ci sono andato anche io una volta, all’epoca si andava, mi ricordo c’era un comizio di Almirante, ci fu una contestazione, arrivò la polizia, si scappava dentro ai portoni, e lì presi anche io le randellate».
Torniamo a Pescara. Un posto del cuore.
«Eriberto sicuramente, e il ristorante Michele. Erano il mio punto fisso, ci andavo tutti i giorni, avevo gli amici, Valerio Santilli, Fefè, Mario Mancini, tutta quella banda lì».
Ci racconti qualche scherzo.
«Tanti, ma lasciamo perdere, se ne raccontano già tante di leggende metropolitane».
E allora ci racconti di Eriberto e delle vostre uscite in barca. Che vi dicevate?
«Niente, lui appena sono arrivato mi ha sfidato subito con gli sci d’acqua. Io ci andavo già da vent’anni, e lui cercava di buttarmi giù, con il motoscafo faceva giri a tutta forza per farmi cadere, ma rimanevo in piedi. Siamo diventati amici così. Eravamo gli unici che con il garbino uscivano con il catamarano. Anche d’inverno, lui buttava le reti e andavamo a prendere il pesce che poi portava alle associazioni. La balneazione l’ha inventata lui. E poi le famose partite a tennis. Eriberto era furbo, giocava malissimo a tennis ma era ladro, Fefè non giocava tanto, erano le mogli le più accanite. C’erano Vincenzo Marinelli, Cicci Diomede, Cavallito. Io giocavo in coppia con uno che non rompeva le scatole, gli altri baruffavano tutti, succedevano delle risse, delle cose pazzesche».
Ma che si vinceva?
«Niente! Ma ho visto delle cose, tirarsi le racchette, inseguire l’avversario fino in spiaggia, rincorrerlo e poi tornare indietro sotto braccio e ricominciare a giocare. Liti quotidiane che fomentava Eriberto stesso, uno spettacolo. Ma le donne, le mogli erano le più agguerrite».
Erano gli anni in cui anche Senna frequentava Pescara, tramite Gino Pilota. Che ricordo ha?
«Una persona gentile, veniva ad allenarsi al campo quando se ne andavano tutti».
È risaputa la storia di Max Allegri, che quando giocava a Pescara lasciò la fidanzata il giorno prima delle nozze per la pescarese Vanilla. È vero che la sera prima Allegri chiamò lei?
«Sì. Ero in Sardegna. Max ci ha fregato anche lì, gli avevano regalato il viaggio alle Maldive. La sera mi chiama. Che gli ho detto? Che non era il massimo della vita avere dei dubbi il giorno prima di sposarsi, non è un buon inizio. Gli dissi di pensarci un po’. La mattina dopo mi richiama, che lo avevano martellato per tutta la notte per convincerlo, ma che lui non se la sentiva. Erano le 10 del mattino, venne in Sardegna, lo andai a prendere all’aeroporto di Alghero».
Un legame che non si è mai interrotto, con Allegri.
«Siamo stati tanti anni insieme, a Pescara, poi a Perugia dove vincemmo un altro campionato, a Napoli e a Udine dove mi ha fatto da aiuto. Abbiamo avuto sempre un buon rapporto».
E oggi che allena la Juve, gli dà consigli?
«Mi permettevo di dirgli qualcosa fino a qualche anno fa. Ora con tutto quello che ha vinto, cosa gli vai a dire? Certo, ogni tanto mi incazzo e gliele dico, ma mai discorsi tecnici».
Il suo calcio ha fatto scuola. Lo descriva con due aggettivi.
«Non è adatto al calcio di adesso, con tutto quel giro di calci che fanno oggi. Io sono per conquistare la palla e andare a colpire nell’immediatezza. La prima cosa da fare è sviluppare un gioco d’attacco».
Allora è vero che nel suo calcio il portiere serve poco?
«Ma se adesso il portiere gioca più palloni del centrocampista! Si perdono delle partite assurde perché c’è questa storia della costruzione dal basso, che a me non piace. Anzi, prima ho detto che il mio allenatore di riferimento è Liedholm. Ma questo per la tecnica, per la disposizione in campo, ma non per il possesso palla, che a me non fregava tantissimo, se non alla fine, quando eri in vantaggio e facendo finta di fare possesso palla innervosivi gli avversari e poi li trafiggevi. Era una soluzione offensiva».
E la città se n’ è innamorata. Secondo lei perché?
«Quando sono arrivato, Pescara era una città strepitosa, piena di vita, caotica. C’era movimento, forse giravano più soldi, ma i negozi erano sempre pieni anche solo di gente che chiacchierava, era tutto dinamico. Devi sviluppare un gioco che corrisponde a quella mentalità, a quello che si aspettano in quel momento, un gioco spumeggiante, sbarazzino, divertente. A costo di rischiare qualcosa dovevi rappresentare lo spirito della città in quel momento. Sviluppare un gioco triste non avrebbe pagato, e non sarebbe stato neanche corretto. Io delle volte esagero quando dico che l’Italia non ha più un gioco identitario. Questa identità nel calcio ce l’hanno gli spagnoli, tik, tik, titìk, ma gli spagnoli hanno le corride: tirano duecento freccette al toro e poi arriva il matador e gli dà il colpo di grazia. E così nel loro calcio. I tedeschi gli sparano direttamente al toro, hanno bisogno di centravanti, di fare cross, è per questo che anche se gli proponi il calcio di Guardiola che vince con il Bayern, i tedeschi non si riconoscono. Noi italiani eravamo conosciuti come dei catenacciari, abbiamo perso anche quella identità. Ma questo perché non ci sono più i settori giovanili. E si arriva al paradosso che ci sono squadre in A senza un giocatore italiano».
Non giocando più per strada, i bambini vanno nelle scuole calcio.
«Il problema è che le scuole calcio insegnano tanta tattica, ma è finita la tecnica, non si insegna più a giocare a calcio. Invece ai ragazzi va spiegato perché la palla corta e non lunga, perché a destra e non a sinistra, e poi a seconda dell’età: l’agonismo va in un certo periodo della crescita, la tattica in un altro. Anche fisicamente, non puoi fare dei lavori mentre il ragazzo sta facendo lo sviluppo, devi saperlo».
Torniamo al suo mitico Pescara. Il ritiro più bello?
«Quello storico a Monte Fortino, il primo. In un albergo senza telefoni, si mangiava benissimo ma c’era un campo di patate. Lì i primi scontri con i giocatori che dicevano che non ci si poteva giocare. E a me toccava bluffare, dicevo che erano loro che non erano capaci. È lì che ci hanno ripescato. Dovevamo giocare la domenica successiva in serie C, e il mercoledì ci dissero che ci avevano ripescato al posto del Palermo. Ci preparammo subito per la partita contro il Cesena. Mi ricordo al secondo tempo crolla un giocatore davanti a me, pieno di acido lattico. Chiamo un cambio dalla panchina, mi sembra Adorante, non li conoscevo neanche. Ma i 4 o 5 in panchina mi dissero, mister guardi, forse il nostro capitano è più pronto. Era Danese, capitano della Primavera, e io feci come mi indicarono loro. Ecco, si vedeva già allora che gruppo era, senza personalismi, una cosa bellissima, la forza vera di quella squadra che poi andò in A».
La vittoria più bella?
«Tante. Quella di Bologna fu bella. Era una vita che dicevo che a Bologna avremmo vinto. Solo che giocavamo l’11 gennaio, il mio numero nero. L’11, che a me porta sfiga, non vinco mai con l’11. Ma la sospesero per neve e il 25 gennaio vincemmo».
Perché non le piace l’11?
«Mai piaciuto. Gli uno, con le punte, mi sembrano dei chiodi, segno di ostilità».
Altre scaramanzie?
«Il quadrifoglio. Avevo la mania dei quadrifogli, quando allenavo li trovavo di continuo sul campo. Ma senza cercarli, cercarli non vale».
Prega?
Mai pregato, anche se ho avuto una famiglia molto religiosa.
Fuma ancora?
«Roba da panchina, non sono un fumatore. Solo il periodo in cui allenavo. Durante la partita era una bella lotta tra me e Scibilia, un pacchetto sicuro».
E ora che fa?
«Vado in barca quando posso, leggo i giornali, quattro o cinque al giorno, uno solo sportivo».
Pregio e difetto dei pescaresi.
«Che difetti possono avere? Sono di una generosità pazzesca, sono veri».
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