Pesoli si ritira, ma resta nel Pescara. La sua toccante lettera d'addio al calcio giocato
Emanuele Pesoli appende gli scarpini al chiodo. Non correrà più dietro un pallone, ma insegnerà alle nuove leve come vivere nel mondo fatato ma crudele del calcio. Entra nei quadri tecnici del Pescara, con riferimento al settore giovanile. E lo fa dopo aver scritto di suo pugno una struggente lettera di addio al calcio giocato che pubblichiamo integralmente. Eccola:
Ho sempre pensato che ognuno di noi, sin da piccolo, è chiamato ad inseguire un sogno. Il mio si chiamava e si chiama ancora calcio.
Per rincorrerlo, piccolino com’ero da bambino, ho dovuto imparare in fretta che dribbling e tiri ad effetto alla Holly e Benjii non mi sarebbero bastati. Quando scendevo in strada, a giocare tra i grandi, la palla neanche me la passavano: toccarla non era poi così scontato.
Credo che fu allora che feci di caparbietà e tenacia le mie armi migliori. Prendere la palla era una conquista, proteggerla una missione: ci mettevo tutto me stesso, tanto che in poco tempo per molti diventò problematico togliermela dai piedi.
Gli anni del garage e del vicolo passarono veloci, mentre correvo a perdifiato tra la spensieratezza di un goal e la delusione di un ginocchio sbucciato: sarebbero state sculacciate? Poco importava, del resto la fine del mondo era solo perdere il pallone, o peggio ancora la partita sotto casa.
In primo piano, in ogni mia giornata, c’era il calcio. In sottofondo, alla radio e alla TV, sempre lui: il “grande” calcio. Quello a cui ambivo con gli occhi di un bambino libero di sognare, tanto che continuai a giocare praticamente ovunque possibile, passando dalla strada alla piazzetta, dal campetto delle giovanili della città dove sono nato, Anagni, crescendo in un settore a dir poco glorioso per una squadra di provincia.
Ormai, quasi senza accorgermene, muovevo i primi passi nella prima squadra dell’Anagni: ero cresciuto come giocatore, ma anche come uomo. Un febbrone estivo mi trasformò letteralmente dal piccolino della squadra nella colonna del reparto difensivo. In quindici giorni passai dal metro e sessanta a un’altezza di oltre un metro e ottantacinque: fu una sorpresa incredibile per me, abituato a poter contare più sul mio atteggiamento grintoso che su un fisico importante. Eppure, nonostante i successi locali, per quanto bella sentivo che la provincia avrebbe potuto definitivamente ingabbiarmi. Non volevo credere che il mio mondo finisse proprio li.
Giorno dopo giorno, consideravo con attenzione maniacale ogni aspetto della mia vita calcistica per crescere e continuare ad inseguire il grande calcio.
Dentro mi ripetevo: “Tu non mollerai mai”.
A cambiare improvvisamente le cose fu l’incontro con il presidente Pasquale Specchioli, che fu il primo a credere in me ed a spingermi verso un cammino che mi avrebbe portato lontano, lontano anche dagli affetti e dal mio paese, ma sempre più vicino al mio sogno. Ed è per questo che il mio primo grazie va a lui.
Oggi, dopo quattordici anni di carriera nel calcio professionistico, lunghi ed anche difficili da raccontare, ho deciso di affidare a questa lettera tanti dei ringraziamenti che sento di voler restituire per le emozioni che il calcio mi ha donato. Uno sport che mi ha dato davvero tanto e al quale credo di aver restituito altrettanto in termini di sacrificio, cuore, lealtà sportiva e correttezza nei confronti dei compagni, degli avversari, e soprattutto dei tifosi, che del calcio sono l’anima.
Solo oggi mi rendo conto di quanto sia difficile dire addio al calcio giocato, ma allo stesso tempo sento che è arrivato il momento di farlo con coscienza: purtroppo posso dare sempre meno in campo, soprattutto dopo gli ultimi anni che sono stati costellati da infortuni. Ed anche se qualcuno mi vorrebbe ancora in campo, come giocatore “esperto”, ora sento di poter voltare pagina senza rimpianti.
E questa e’ una grande fortuna, della quale sono grato: poter chiudere con consapevolezza. Dunque ci siamo Emanuele. Slacciamo gli scarpini, addio al calcio giocato.
Ma attenzione: sottolineo giocato. Perché a guidare il mio cuore c’è ancora quello stesso entusiasmo dei primi giorni. Quindi smetto di correre, ma non di vivere il calcio: mi sono preparato per essere pronto a nuove sfide nelle vesti di un giovane allenatore, un ruolo a cui mi dedicherò con la passione di sempre ed al quale, a dire il vero, ho sempre guardato con attenzione e ammirazione. Addirittura con devozione, se penso al giorno del mio esordio nei professionisti. Era il 2002, in C2 con il Tivoli, segnai anche una rete. Di tempo ne è passato, ma alcune date restano indelebili nel cuore di un calciatore che vive ancora di emozioni vere, che crede ancora nell’aspetto romantico del calcio. Il 30 Gennaio del 2005 è una di quelle: l’esordio in serie B, da titolare con il Vicenza contro il Catania, partita che mi lascio’ addosso la consapevolezza di poter accarezzare in carriera palcoscenici importanti. E sempre a Vicenza poi arrivò una delle più belle emozioni della mia carriera.
Il 30 aprile del 2005, al Menti, ospitammo la Salernitana in una fondamentale sfida salvezza. Prima della gara, carica di tensione, scesi in campo per il riscaldamento e sugli spalti trovai il mio profilo riprodotto su un bandierone. Poi un coro deciso che taglio’ tutto lo stadio inneggiando al mio nome. Restai incredulo e mi avvicinai: c’erano i miei amici di sempre li in tribuna a sorprendermi con un tifo incredibile. Erano arrivati senza dirmi nulla.
Quando la partita cominciò, avevo l’adrenalina a mille. Dopo 11 minuti di gioco andai a staccare di testa su un calcio d’angolo a nostro favore, pronto a tutto per impattare quella palla. Fu così che arrivò il momento del mio primo goal in Serie B: ne seguì una corsa forsennata verso quei miei amici, così che ci ritrovammo tutti abbracciati a bordo campo, divisi solo dalle grate. Ricordo che le immagini furono riprese da Sky e fecero rapidamente il giro del paese: una emozione indimenticabile.
A Vicenza seguì l’esperienza del Cittadella, con la quale feci i play off per la promozione in serie A, arrivando a sfiorare il grande sogno. E poi ancora Varese, dove ho avuto la possibilità di lavorare con un maestro di calcio come Sannino.
Annate intensissime, vissute al massimo, tanto che, come a volte accade, mi ritrovai nel sogno della Serie A senza quasi rendermene conto, talmente lavoravo in campo.
E invece il 22 Settembre del 2011 scesi in campo per la prima volta nella massima serie italiana. Giocai tutti i 90 minuti in un Roma – Siena in cui fui chiamato a battermi con un diretto avversario che di certo non aveva bisogno di presentazioni: Francesco Totti, forse il più grande giocatore italiano di tutti i tempi.
Trasformai l’emozione in energia e funzionò: del resto, il vicolo dove avevo iniziato a giocare da bimbo non era poi così lontano dall’Olimpico, ed anche stavolta i miei amici erano lì in tribuna. E si, a fine gara la scena dell’abbraccio poté ripetersi perché all’Olimpico strappammo un punto che sapeva di vittoria.
Fu un bel pareggio, un risultato che comunque ti insegna sempre qualcosa: come le vittorie e le sconfitte. Del resto, nella vita di un calciatore che molti pensano facile da sempre e per sempre, ci sono invece anche quei momenti bui che speri di non attraversare, che ti cambiano dentro e non sempre in meglio.
Annate storte, infortuni, retrocessioni…insomma grandi amarezze. Il mio momento peggiore è stato sicuramente quello vissuto con l’inchiesta sul calcioscommesse: una ferita rimasta aperta per una battaglia che ho combattuto, credo, con dignità e consapevolezza della mia assoluta estraneità ai fatti. Da quello che sembrava un momento di sconforto infinito, ne sono uscito in realtà più forte, soprattutto come uomo. Sempre a testa alta e circondato dalle persone più care: ecco perché voglio ringraziare ancora la mia splendida famiglia, tutti gli amici che mi sono stati vicini in quei giorni ostili, senza dimenticare gli avvocati che mi hanno assistito, Paolo Rodella e Giampiero Vellucci. E non dimentico il Verona: una piazza calcistica con la quale ho conquistato la promozione in serie A seppur non giocando per via di quella squalifica. Loro mi hanno fatto sentire comunque a casa, parte di un gruppo e di una vera società importante, con tifosi unici. Gli sarò sempre riconoscente.
L’occasione del riscatto venne poi col Carpi, una squadra in rapida crescita in cui fui protagonista prima dell’approdo, nel 2014, al Pescara. Ho sposato il Delfino biancazzurro carico di attese che non sono state deluse perchè Pescara è diventata la mia seconda casa. E proprio da qui riparto con una nuova avventura da allenatore dei giovani. Giovani ricchi di entusiasmo, di energia, e spero…di sogni.
Quelli che io avevo prima di affrontare questi 14 anni di professionismo per cui dico grazie alla mia famiglia: sempre e comunque vicina a me. A mia moglie Teresa che mi ha sempre sostenuto incondizionatamente facendomi conoscere il senso profondo del sostegno di una vera donna e di una madre devota. Grazie ai miei figli Alessio e Damiano, che da me hanno ereditato la passione per il calcio e ai quali non posso che augurare di fare ancora meglio del papà! Grazie ai miei genitori, ai miei fratelli, a tutti i miei compagni di viaggio in campo e fuori. Dal mio procuratore Riccardo Calleri, che mi ha sempre accompagnato in questi anni con grande serietà e competenza, a tutti i miei compagni di squadra, agli allenatori, alle società che hanno creduto in me e che mi hanno lasciato un qualcosa che sarà per sempre. Grazie ai tifosi delle splendide maglie che sono stato onorato di vestire e per le quali, ci potete giurare, ho sempre dato il massimo. Ed infine, un sentito grazie va al mio Presidente attuale, Daniele Sebastiani, con il quale proseguiamo insieme questa avventura nel Pescara Calcio condividendo valori importanti, che vogliamo trasmettere ai più giovani per trasformarli presto in risultati sportivi…sempre più gloriosi!
Emanuele Pesoli
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